Continua il dialogo tra un giovane e il suo parroco

Questa volta si confrontano commentando un articolo dello scrittore Alessandro D'Avenia sul "battesimo" di Achille Lauro a Sanremo

Il commento di Alessandro D’Avenia in merito al battesimo di Achille Lauro sul palco di Sanremo offre certamente interessanti spunti di riflessione. Pur concordando pienamente sulla profanità del gesto del cantante, e lodando l’introduzione sulla vita eterna, mi sento in dovere muovere una critica verso la riflessione dello scrittore palermitano.
Egli, nel descrivere il fatto di aver ricevuto il battesimo pochi giorni dopo la nascita, fa coincidere la ricezione del sacramento con il dono della fede. Afferma infatti che, nel momento in cui ha ricevuto il battesimo, ha aperto un conto a credito illimitato, che con i successivi sacramenti ha semplicemente dovuto riconfermare.

Al contrario, in diversi casi ho visto ragazzi ricevere i sacramenti d’ufficio non comprendendone a fondo il significato. Non è forse anche questo un travisamento di tali sacramenti, al pari di Achille Lauro? Fare la prima comunione solo per ricevere i regali dei parenti? Celebrare il rito della confermazione per fare contenti i genitori? Essere battezzati unicamente per volontà della famiglia?
L’allontanamento volontario di molti di questi ragazzi dalla comunità cristiana subito dopo aver conseguito questi sacramenti per convenienza, dimostra come la fede non sia sempre una diretta conseguenza del rito, contrariamente a quanto D’Avenia, secondo me, lascia intendere.
Questo mi porta a introdurre un’ulteriore osservazione.
Se non sono i riti, chi è che mi permette di acquisire la fede? La risposta è molto semplice: noi stessi. O meglio, il rapporto (esclusivamente personale) tra ogni individuo e Dio. 
L’atto della ricerca della fede è infatti qualcosa di estremamente personale: non possono essere i genitori o gli amici a portarci da essa, attraverso il dialogo razionale (l’unico strumento che possono usare in quanto uomini). Riportando ciò che afferma il filosofo danese Søren Kierkegaard, vivere abbandonandosi alla religione vuol dire andare al di là anche dei valori che regolano la vita degli uomini, e fare un salto “irrazionale” nella fede. Credo che solo Dio sia in grado di donarci la forza di fare questo salto.
Non sono quindi gli altri a battezzarci, ma siamo noi stessi che decidiamo di battezzarci: su questo (tralasciando per un momento i significati profani che il cantante ha attribuito al gesto del battesimo) penso che Achille Lauro abbia ragione. Dobbiamo essere noi a decidere di voler entrare all’interno della comunità cristiana come convinti fedeli, solamente a seguito di un percorso spirituale in cui prendiamo consapevolezza di ciò in cui ci stiamo inserendo, non senza il cruciale aiuto della fede. Siamo quindi, per certi versi, noi stessi a versarci una metafisica acqua santa sul capo.
Purtroppo, al contrario di D’Avenia, non mi sento ancora battezzato spiritualmente fino in fondo, non ho ancora conosciuto la forza tale per fare il salto nell’abisso della fede in modo totale, forse a causa del conflitto di interessi tra la mia educazione cristiana e quella scolastica: frequentando un liceo scientifico, sono allenato costantemente all’uso della ragione, strumento che per primo dovrei abbandonare per raggiungere la necessaria fede.
Ma conoscere Dio fino in fondo è qualcosa di imprevedibile, che potrebbe accadere in qualsiasi momento della mia vita. Attendo quindi con ansia il giorno del mio battesimo. 

M.

 

M., ti ringrazio per aver accolto il mio invito a leggere l’articolo di Alessandro D’Avenia, apparso nel Corriere della Sera, lunedì 6 febbraio 2022.
Così introduceva la sua riflessione: “Achille Lauro, auto-battezzandosi sul palco di Sanremo in apertura del festival della canzone italiana, ha voluto rappresentare la sua rinascita, ribadendo, attraverso lo scimmiottamento del rito, che siamo fatti non per morire ma per rinascere, cioè per una vita eterna”. Si poneva quindi la domanda: “Ma che cosa è la vita eterna?”. Invitando il lettore a leggere l’intero interessante articolo, sottolineo una frase che mi sembra centrale e che rimanda all’autentico battesimo cristiano che, - ci tengo a far notare -  rimarrebbe incomprensibile senza il riferimento alla Pasqua di Cristo; anzi, per il cristiano è la prima Pasqua.
Scrive: “Il battezzato è vivo perché partecipa alla vita di Dio”. E giustamente fa notare che nel battesimo cristiano non ci si battezza ma si viene battezzati nel nome di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.
Mi viene spontaneo, in riferimento alla tua impegnativa e critica riflessione, pensare che la mia, la tua stessa vita, sono un dono che ci è stato fatto. Nessuno di noi si è dato da sé la vita. In maniera analoga è avvenuto per il dono del battesimo, dono della fede, dono della vita eterna. E come la vita donata, crescendo degli anni, diventa sempre più una vita consegnata alla nostra responsabilità e vissuta come vocazione all’amore, così dovrebbe essere anche per il dono della vita divina nel giorno del nostro battesimo.
Nella tua riflessione, quando scrivi che  “non mi sento ancora battezzato spiritualmente fino in fondo”, vorrei leggervi proprio questo: ciò che mi è stato donato, forse, non l’ho ancora fatto mio fino in fondo. Che non sia il caso, allora, al di là della presa di distanza dallo “scimmiottamento del rito” di Achille, provocati dalla tua riflessione, di chiederci se come credenti, cristiani battezzati, stiamo vivendo nella gioiosa certezza del dono che ci è stato fatto e, giorno dopo giorno, anche grazie alla Pasqua che celebriamo in questi giorni, ne diventiamo sempre più consapevoli? Quanto poi al rapporto tra fede e ragione non vorrei affatto semplificare la questione.
Personalmente sono convinto che se ci fosse contraddizione o se dovessi rinunciare alla ragione per credere, dovrei rinunciare a una parte importante di me. Ma non penso che questa rinuncia  sia nel disegno di Dio.
Forse ho già citato un’altra volta quello che scriveva John Polkinghorne, fisico matematico, teologo e prete anglicano, figura centrale nel dibattito sul rapporto fra scienza e religione nel XX secolo: ”Mi piace dire che la mia visione del mondo ha due occhi: attraverso la prospettiva della scienza e della religione. Una visione binoculare che mi rende capace di guardare oltre quello che vedrei con un occhio solo. Devo prendere la scienza e la religione con la medesima serietà”.
Grazie, M., ci fai riflettere. 

d.giovanni
 


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